10 gennaio 2008

[VM] Il fotografo a parole

Terza liceo ed anarchia.

Mi ricordo di un professore di italiano vecchio e rimbambito, vestito in maniera indecente.
Ci si alzava in gruppi di 5/6 persone alla volta per andare in bagno contemporaneamente e poi si passava il resto dell'ora a chiacchierare nei corridoi o a prendere il sole nella cosiddetta palestra, in realtà porticato decadente.
Chi restava in classe era impegnato a cacciare urla a gran voce, versi di animali o nomi di mamme e sorelle altrui.
Di tanto in tanto dall'uscio volavano gessi,cassini o palle di carta igienica inzuppate d'acqua.
Intanto il professore a testa bassa, ignorando tutto ciò, scandiva versi come un automa.
...eppure, a rileggerli oggi, non sembrano così distanti Dante e Boccaccio...

A fine anno c'eravamo stancati anche di insultarci e c'eravamo attrezzati diversamente: chi portava la radio, chi studiava per le ore successive...

Giulio era un ragazzo alto e silenzioso.
Alcuni lo definivano "introverso", ma credo che intendessero piuttosto "riservato".
Mente geniale e poca voglia di studiare.
Lui nelle ore di letteratura faceva letteratura.
Un giorno mi passò il libretto che leggeva sottobanco: "Un Messico Napoletano" di Peppe Lanzetta.
La scena in questione era una descrizione particolareggiata ed eccitantissima (...figurarsi per un quindicenne...) di un rapporto lesbico tra la protagonista del libro e la sua migliore amica.
Il libro fece il giro della classe in un istante.
Alla fine Giulio lo riebbe e, incurante del vocìo generale, riprese la sua lettura dal capitolo successivo.

Qualche mese dopo in libreria trovai quel libro e lo acquistai.
Rimasi stregato.
Frasi taglienti come spade, un punto ogni quattro parole.
Uno Scorsese, un Tarantino della penna che non esita a mischiare sacro e profano, che usa citazioni alte e turpiloquio insieme.
Se non fosse che non è con il cinema la metafora più azzeccata...
lo direi piuttosto un "fotografo a parole".

Poi acquistai "Figli di un Bronx minore" e via via tutti gli altri libri, addentrandomi nelle viscere di Napoli, conoscendo e riconoscendo un'umanità disperata e pulsante, disgraziata e follemente viva.

Eppure li ho dovuti leggere tutti per spiegarmi il motivo della passione di Giulio per questo autore.
Qualche sera fa ho concluso la lettura di "Un amore a termine".
Riporto qui qualche estratto in cui si descrive Positano: mai una parola ridondante, mai un vocabolo che non porti con se una parte dell'essenza di ciò che è descritto.
Sono sicuro che questo ha acceso Giulio alla lettura di Lanzetta, come sono sicuro che di notte se ne sta seduto sulla sua lapide, affacciato sulla sua Positano, ripassando mentalmente queste pagine.



Positano era stato il posto che più di ogni altro aveva "marchiato" gli anni tremendi di Johnny, gli anni affannati di sesso e bugie e irriverenze.
Era stato il posto dove aveva portato le sue donne, che fosse innamorato o meno.
(...)
Johnny ci andava spesso d'inverno e dal sagrato della chiesa si fermava a guardare il mare,
Ogni occasione era buona per scappare a Positano, ogni notte tranquilla meritava di finire a Positano...
(...)
Non aveva la macchina allora Johnny ed elemosinava passaggi in fiat ottoecinquanta o in vecchie cinquencento che per arrivarci ci mettevano una vita.
Ma l'importante per lui era arrivarci.
Alla peggio c'era il pullman della SITA, orari sballati e poi di notte te lo sognavi, e allora meglio un autostop da Meta di Sorrento.

(...)
Comprava pantaloni bianchi allacciati alla schiena, lanciati da Brunella, la boutique più in di Positano.
Quando aveva voglia di starsene da solo se ne andava alla spiaggia di Furnillo dove una sera si appartò con una ballerina del Teatro San Carlo.
Lui era pazzoinnamorato di lei, lei aveva molta simpatia per lui.

3 commenti:

  1. RECENSIONE
    Giugno Picasso – Peppe Lanzetta

    Di consueto c’è solo un vulcano. Questa volta, però, non è il Vesuvio, ma lo Stromboli a fare da sfondo alle vite dei personaggi di “Giugno Picasso”. Peppe Lanzetta tradisce il Bronx e decide di ambientare il suo ultimo romanzo in un’isola della Sicilia, dove tra il nero della pietra lavica e il blu del mare si trova Ficogrande, la villa in cui molti personaggi si incontreranno e si scontreranno per incontrare in realtà se stessi.
    La storia ruota attorno a Don Alfonso, ex marinaio napoletano che dopo anni di mare non è riuscito a trovare il suo posto sulla terraferma, e così ha scelto un luogo a metà tra l’oceano e il continente, l’isola di Stromboli. Qui Don Alfonso ha ristrutturato una villa in cui affitta stanze a turisti abituali. Chi arriva a Ficogrande è in esilio volontario dal mondo. Una comunità molto particolare a cui si uniscono nel mese di giugno Omar, il giovane figlio di Don Alfonso, e il suo amico Pablo. I rapporti tra padre e figlio sono arrugginiti per colpa del tempo e della distanza. Potrebbe ricongiungerli una lettera scritta da Rosa, madre di Omar, all’ex marito. Ma la busta resta chiusa per giorni su un comodino, mentre il giovane e biondo Pablo gioca a sedurre le donne che frequentano Ficogrande.
    Don Alfonso è diviso tra l’impotenza di non riuscire a ricostruire il rapporto con il figlio e la difficoltà di ammettere di essere ormai un vecchio. Il suo esilio sull’isola non serve a pacificarlo con l’inquietudine. Sarà la verità nascosta nella lettera di Rosa a far esplodere – come il vulcano – il bisogno di fare ordine nella propria vita.
    Ambientare la storia lontano da Napoli ha un preciso scopo: quello di assolvere la città dalle accuse di luogo insano. La “malattia” è dentro le persone e le segue ovunque vadano. Non esiste un posto in cui si possa scampare a se stessi.
    Dimenticate Lanzetta. Dimenticate i suoi precedenti racconti. Non ne troverete traccia in “Giugno Picasso”. Lo scrittore napoletano non ha più bisogno di nascondersi dietro lo stile “da strada” che ha costruito nei suoi primi libri. Quest’ultimo lavoro segna la sua maturità. Il romanzo – edito da Feltrinelli – è apparentemente meno doloroso e tragico di quelli precedenti, ma nasconde l’amarezza di chi prende coscienza della propria condizione di esule dalla normalità.
    Lo scrittore napoletano taglia il cordone ombelicale con la città in cui “nulla si salva, nulla si salverà” e stacca le parole, che in “Giugno Picasso” imparano finalmente a stare da sole. Decide per la prima volta di assoggettare la sua scrittura alle regole canoniche del romanzo. Non sono le descrizioni sgrammaticate a catturare il lettore, ma il senso profondo della storia. A un occhio distratto sembrerà di non vedere l’autore di “Figli di un bronx minore” dietro un libro in cui mancano i suoi tratti caratteristici. Ma se si guarda con attenzione si ritrova in “Giugno Picasso” l’essenza della scrittura di Lanzetta, che ancora una volta mette insieme in un’“isola nell’isola” personaggi ai margini della società, disperati che il mondo non vuole vedere, o che non vogliono farsi vedere dal mondo.


    questa è la recensione che avevo scritto due anni fa, sotto tortura, per un compito assegnatomi al master.
    al di là di questo, è un bel libro. anche se a giulio non sarebbe piaciuto....

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  2. Sottoscrivo in pieno la recensione e soprattutto il commento finale; tra l'altro la recensione l'avevo trovata per il web e mi era piaciuta molto, senza sapere che l'avessi scritta tu.

    Solo un'annotazione: Giugno Picasso non è il primo romanzo di Lanzetta... quello precedente è proprio Un amore a termine.

    Ne approfitto per segnalare che qualche scritto di Lanzatta si può trovare a questo indirizzo

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  3. grazie Depa... mi serviva proprio....

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