Nonostante i loro soprannomi la Clà, la Baby e la Lù sono più vicine ai quaranta che ai trenta.
Quei nomignoli se li sono dati in qualche ora di educazione fisica al ginnasio e se li sono lasciati addosso - come un cappello con le piume - per gli anni dell'università e quelli del lavoro.
La Baby schiaccia "caffè ristretto senza zucchero" e si appoggia con la schiena contro il distributore che inizia a macinare.
"Ieri sera con Luchino una tragedia.
Dovevo cucirgli il costume per la recita: son stata in piedi fino all'una, e lui di fianco a me che adesso gli pungeva la calzamaglia, adesso le maniche erano corte, adesso non gli stava il cappellino... un macello...."
La Clà fa di sì con la testa mentre gira il thè con lo stecchino di plastica, poi aggiunge:
"Non lo dire a me, guarda... la poesia di Natale la so più io che Giacomo.
Me l'avrà ripetuta duecento volte - che poi la sa anche, è solo che è insicuro e non vuol fare brutta figura coi nonni, piccino... pure le maestre però, con sta smania delle poesie in inglese!"
La Lù è appoggiata al muro.
In una mano tiene della cioccolata calda sulla quale soffia troppo lentamente per raffreddarla davvero.
Il sorriso è di quelli che ti metti in faccia quando hai perso un passaggio e sei tagliato fuori dalla discussione, lo sguardo è fisso su un punto inutile del brutto pavimento di gomma.
La Clà e la Baby continuano le loro chiacchiere non dando peso a quella estraniazione, scambiandola per stanchezza da troppo lavoro.
Invece la Lù sta pensando alla fetta di utero scaricata nel bagno di casa, al fatto che al solo guardarla ha capito all'istante e meglio che con qualunque ecografia che non ci sarebbero state né nausee né voglie, né pannolini né carrozzine, né fiocchi al portone né visite dei parenti.
E - in fondo al cuore - sta pensando anche che Alessandro le è stato vicino, ma come si fa con un malato, non con una moglie.
Poi beve la cioccolata bollente - che tanto pure se scotta fa niente - e rientra a lavorare.
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