Aveva ragione il mio amico Miki che, dopo aver visto "Giorni e nuvole" con Margherita Buy ed Antonio Albanese - io non l'ho visto, com'è??? -, si è rifiutato di accompagnarmi sabato sera a vedere "Tutta la vita davanti", il nuovo film di Virzì.
Ha detto che i film sul precariato mettono tutti, indistinatamente, ansia.
E neppure Virzì - che pure ha sempre condito con abbondante ironia le sue precedenti regie - stavolta riesce a stemperare questa spiacevole sensazione.
E' la storia di Marta, brillante neolaureata a pieni voti in Filosofia che, per sostenersi lontano da casa, finisce per accettare un lavoro part-time ad un call center.
Marta viene travolta dall'impatto con l'ambiente lavorativo, instaurando in un primo momento una sorta di "dipendenza da lavoro", che si affievolisce però con l'emergere progressivo di tensioni ed invidie latenti tra colleghe e con il manifestarsi della spietatezza delle logiche di mercato.
Non racconto di più in modo da lasciarvi il gusto di vederlo... meglio se non capita in una giornata storta, comunque!!
Lascio qui due collegamenti che mi si sono accesi in testa durante la visione.
Il primo è che la locandina richiama in maniera evidente il noto quadro "Il Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo.
Come a dire che i precari hanno assunto oggi il ruolo sociale delle masse di operai che ad inizio secolo scioperavano...
Eppure i precari NON scioperano, e se lo fanno, lo fanno contro il sistema e non contro chi, pur potendo scegliere forme di assunzione differenti, opta per quelle meno stabili.
Un'altra anomalia che salta all'occhio è che gli operai di inizio secolo procedono sciatti nel vestire, ma fieri ed incazzati, mentre i precari di Virzì procedono sorridenti ed agghindati di tutto punto, quasi non si accorgessero di essere nelle medesime condizioni dei propri "pittorici" predecessori.
Ritorna spesso nel film questo tema dello stordimento sociale, questo trovare rifugio dalla realtà della propria condizione in una para-dimensione che si nutre delle storie del Grande Fratello e di riunioni motivazionali al ritmo di cori improbabili, coreografie e danze maori.
Come se non bastasse quel che si fa a generare soddisfazione, ma anzi occorresse una valvola di sfogo per la frustrazione che si accumula.
La seconda annotazione è che mentre uscivo dal cinema mi riecheggiava in testa la voce (doppiata) di Will Smith che - ne "La ricerca della Felicità" - dopo essere stato sul lastrico con un figlio a carico, dopo averlo portato a dormire nei bagni della stazione avendo venduto tutto, dopo aver trovato un nuovo lavoro più o meno stabile, ripeteva:
"Questa piccola, insignificante parte della mia vita è quella che chiamo Felicità".
Che sia questa la chiave di lettura di tutto il discorso: lasciar perdere le aspettative, le pressioni, le ambizioni esasperate e concentrarsi sulla "Ricerca della Felicità"?
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